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Suona il telefono. Rispondo. E' il Grande Artista Sconosciuto.

"Se fai un salto da me", dice il Grande Artista Sconosciuto, "ti faccio vedere il mio Cristo con angeli mongoloidi. L'ho portato avanti abbastanza".

"Ho appena finito di mangiare la mela", gli dico. "Prendo il caffè e arrivo".

"Lo prendi da me, il caffè", dice il Grande Artista Sconosciuto.

"Arrivo", dico io.

 

Il Grande Artista Sconosciuto abita in un bilocale. Una stanza per dormire e leggere, un'altra stanza per tutto il resto. Tra le due stanze un corridoietto. Un bagno, un cortiletto di due metri per tre chiuso tra muri altissimi. La finestra della stanza per tutto il resto dà direttamente sulla via, la stanza per dormire dà sul cortiletto.

Esco. Cammino. Non incontro nessuno. Sono le due del pomeriggio di Ferragosto. In dieci minuti sono da lui.

Il Cristo con angeli mongoloidi è appeso nel cortiletto. E' un quadro forse di un metro e venti per un metro e quaranta. A una croce di legno chiaro è appeso il Cristo. Il fondo è nero. La croce è resa quasi iperrealisticamente: il legno ha vene, nodi. Il corpo del Cristo si contorce sulla croce: non è un corpo morto, non è un corpo in quiete rassegnata o divina. Ha un colore roseo, più da carne macellata che da corpo vivo. Non ha testa: dal collo sgorgano due bocche urlanti, piene di dentini bianchi; e non ha mani: le braccia finiscono in moncherini. E' difficile non pensare a Francis Bacon. Dal fondo nero del quadro emergono gli angeli mongoloidi. Uno, nell'angolo in alto a destra, ha una testa enorme, gli occhi a forma di chicco di riso. E' di un colore che non saprei dire, tra il grigio e l'azzurro; è evanescente, sembra un fantasma o una nube che sbuchi da dietro il braccio chiaro della croce. Un altro, in basso a destra, ha gli occhi sbarrati e la bocca spalancata, una O. E' un po' meno evanescente, giallastro. Un terzo, in alto a sinistra, sembra quasi aggrapparsi al braccio della croce, o toccare con il braccio la testa/bocche del Cristo. Il corpo è quasi aranciato. E' il più definito di tutti. Ha un occhio bianchissimo, a forma di chicco di riso. Il quarto angelo mongoloide, in basso a sinistra, è il più evanescente di tutti: traspare appena appena dal nero, come una medusa in un'acqua scura, è fatto di pochi segni. Ai piedi della croce, a sinistra, si vede un teschio che una qualche luce illumina.

"Bello", dico.

In casa del Grande Artista Sconosciuto ci sono altri due Cristi in croce: uno, dipinto quasi in bianco e nero su un grande lenzuolo, è appeso nella stanza per dormire. Ha la bocca spalancata, il cranio scoperchiato, dei segni attorno alla faccia per cui sembra che la sua faccia non sia una faccia, ma una specie di maschera. Indubbiamente ricorda Ranxerox. L'altro è una piccola tela: la bocca è sempre spalancata, figure fantasmatiche si aggirano attorno alla croce.

Del suo progetto di fare un Cristo in croce, il Grande Artista Sconosciuto mi aveva parlato a lungo. Mi aveva parlato, ancora un anno fa, credo, dell'idea di fare un Cristo in croce urlante, con alla base della croce un gruppo di mongoloidi che ridono. Nel frattempo ha iniziato alcuni quadri con dei feti. Appoggiato alla parete del corridoietto ce n'è uno: è abbastanza piccolo, il corpo del Cristo non c'è ancora (c'è solo il fondo), due giganteschi feti bianchi galleggiano in aria, uno a destra e uno a sinistra della croce, e guardano il Cristo.

Il Grande Artista Sconosciuto ha dei dubbi sul cranio. "Non so", dice, "quel cranio messo lì, e trattato in quel modo, fa troppo Rembrandt. Forse dovrò velarlo completamente".

Io dico: "Mi piacciono, questi angeli mongoloidi, ma devo dire che mi piacciono di più quelli più evanescenti. Questo", e indico quello in alto a sinistra, "mi sembra un po' troppo corporeo".

Naturalmente quello che dico io non conta niente. Il Grande Artista Sconosciuto pensa in un modo per me incomprensibile. Lui è un pittore. Il modo in cui un pittore pensa, per me è incomprensibile. Il modo in cui un pittore immagina, e in particolare il modo in cui il Grande Artista Sconosciuto immagina, mi è assolutamente incomprensibile.

Questo non mi impedisce di restare a bocca aperta davanti ai suoi quadri. Lui mi domanda che ne penso, e io gli dico qualcosa. Ma so che è solo conversazione.

Torniamo dentro, e il Grande Artista Sconosciuto mi fa il caffè. Poi conversiamo un paio d'ore.

Se volete saperne di più sul Grande Artista Sconosciuto, cliccate qui.

 

Sono in via san Francesco. Sto camminando e leggendo il giornale. Una voce.

"Scusa, scusa".

Alzo gli occhi. Vedo un uomo alto, solido, pelato, con gli occhiali neri.

"Tu sei giulio mozzi, vero?", dice l'uomo.

"Sì", dico.

In questo modo, circa due anni fa, ho conosciuto il Grande Artista Sconosciuto.

 

Ho scoperto poi che il Grande Artista Sconosciuto ha conosciuto così parecchie persone. Fermandole per la strada. Di me sapeva chi ero, mi aveva visto una o due volte a presentar libri in Feltrinelli, aveva letto un mio libro. Ma spesso il Grande Artista Sconosciuto vede per la strada una faccia, un corpo che gli piacciono, e ferma la persona.

Così fanno i grandi artisti, dice lui. Conosciuti o sconosciuti che siano.

Ieri, mentre spiavo la famigliola, mi manda un messaggio sul telefono. "Ho scoperto che anche Michelangelo aveva disegnato un Cristo con due teste". Gli rispondo: "Chi è Michelangelo difronte al Grande Artista Sconosciuto?". E lui: "Ah ah! Sicuro che non hai creato un nuovo tipo di ossimoro?".

No, non ho creato un nuovo tipo di ossimoro. Il Grande Artista Sconosciuto ha una sua Grandezza anche nell'essere Sconosciuto.

(Lui non sa niente, di queste cose che scrivo su di lui qui).

 

Oggi, alle 17.50, in Feltrinelli, incrocio il Grande Artista Sconosciuto. Io sono in compagnia di Stefano Brugnolo. Stiamo cercando il Prontuario di punteggiatura di Bice Mortara Garavelli (Laterza).

Il Grande Artista Sconosciuto mi fissa attraverso gli occhiali scuri e mi dice: "E allora, quando ci vediamo?".

 

"Non so", dico io.

"Ti ho telefonato due volte, oggi", dice il Grande Artista Sconosciuto.

"Non potevo rispondere", dico.

"Ah", dice il Grande Artista Sconosciuto.

Potrei dirgli:

- che mentre lui mi cercava al telefono portatile, stamattina, io ero convinto (per quegli equivoci che talvolta accadono) che mio padre fosse finito all'ospedale, e lo stavo cercando all'ospedale appunto, dove si sconsiglia di usare il telefono portatile;

- che io tenevo acceso il telefono portatile, pur essendo in ospedale, nell'eventualità che mio padre chiamasse, ed ero pure un tantino preoccupato, perché sapevo che doveva andare all'ospedale per un controllo, e non immaginavo che si trattasse di cosa grave;

- che pertanto, nella situazione, non rispondevo alle chiamate, e avrei risposto solo se avesse telefonato mio padre o qualche altro familiare;

- che successivamente, chiarito l'equivoco, scoperto che mio padre non era stato trattenuto in ospedale, avendo io perdute due ore per questa faccenda, e avendo diverse cose (come tutti) da fare, e avendo poi questo appuntamento pomeridiano con Stefano Brugnolo (appuntamento di lavoro, anche se Stefano è un vecchio amico), mi è mancato il tempo materiale per richiamarlo.

Non gli dico niente di tutto questo.

"Ci sentiamo domattina", gli dico.

"A che ora?", dice il Grande Artista Sconosciuto.

Il Grande Artista Sconosciuto è un uomo preciso. Gli avevo detto, il giorno di Ferragosto, che sarei stato in viaggio e ci saremmo sentiti oggi; e lui infatti mi ha chiamato oggi. Se gli dico un'ora, per domani, mi chiamerà a quell'ora esatta. Lui è fatto così. Che appuntamenti ho, domani? Alle 9, al telefono, con A*; alle 11.32 con un treno; nel primo pomeriggio con un progetto da scrivere per la Biblioteca Civica di Mestre (Ve); alle 21 sarò a Verona, all'Arena, per la Carmen. Dunque?

"Alle dieci", dico.

"Va bene", dice il Grande Artista Sconosciuto.

Io so com'è la storia: adesso che si è messo a lavorare seriamente al Cristo con due teste (e gli angeli mongoloidi), vorrà vedermi un giorno sì e uno no. Un giorno sì e uno no mi chiamerà e mi dirà: "E allora, quando ci vediamo?". Io andrò lì, non tutte le volte, comunque parecchie volte, perché sennò s'inquieta, e dovrò osservare i lenti, lentissimi progressi del suo Cristo con due teste (e gli angeli mongoloidi). A che cosa gli servano, queste mie contemplazioni, non mi è chiaro. Io non so mai dirgli niente. Della sua immaginazione, l'ho già detto, non comprendo nulla. Tutto quello che faccio è guardare.

In realtà, ogni volta che sono lì, dopo mezz'ora di alta filosofia della pittura si finisce a parlare di donne. E allora son dolori.

 

Due ore di chiacchiere con il Grande Artista Sconosciuto. Il Grande Artista Sconosciuto è matematico, fotografo, pittore. O fotografo, pittore, matematico. O pittore, matematico, fotografo. Ecc. Quando non parliamo di donne, parliamo di matematica, di pittura e di fotografia: tutt'insieme.

A me non piace molto, parlare di donne con il Grande Artista Sconosciuto.

 

"Per me la donna è la fonte dell'ispirazione", dice.

"Come, la donna", dico io. "Sarà una certa donna".

Il Grande Artista Sconosciuto mi guarda sbalordito e dice: "Come sarebbe?".

"Sarebbe", dico io, "che finché tu continui a dire 'le donne', io non riesco a seguirti. 'Le donne' è una cosa indistinta. Io nella mia vita sono in relazione con un certo numero di persone, con un certo numero di maschi e di donne. Sono tutte persone diverse. Con ciascuna di queste persone ho una relazione diversa. Se tu mi parli di 'le donne', io non capisco di che cosa parli, oppure, a scelta, capisco che tu mi parli di qualcosa che non è una relazione. Capisci?".

"No", dice il Grande Artista Sconosciuto, tagliandosi un sigaro.

"Ma qual è la tua donna ideale?", dico io.

"Quella che mi ispira", dice il Grande Artista Sconosciuto, armeggiando con i fiammiferi.

"Sì", dico io, "ma come dovrebbe essere, come te l'immagini, come è stata nella tua esperienza la donna che ti ispira?".

"Mah!", dice il Grande Artista Sconosciuto. Una grande nuvola di fumo riempie la stanza.

"Ma la donna che ti ispira", insisto, "la vorresti anche come compagna?".

"Ma no!", dice il Grande Artista Sconosciuto.

"Ma", dico io, "eventualmente, ci faresti sesso?".

"Be'", dice il Grande Artista Sconosciuto, facendo un gesto ampio con la destra (e con il sigaro), spostando lo sguardo verso la Cleopatra appesa tra la libreria e la finestra. "Può succedere".

Ne ho abbastanza. Rinuncio.

A quel punto il Grande Artista Sconosciuto si lancia in una disquisizione. Mi spiega che nei volti delle Madonne quattrocentesche o cinquecentesche c'è un sacco di matematica. E si domanda: "Se io volessi dipingere una madonna, oggi, che matematica potrei usare?". Poi dice: "La matematica che c'è nella pittura dimostra la superiorità della pittura sulla fotografia". Perché il pittore che dipinge una madonna ritraendo una modella, non copia la modella: usa una modella il cui viso gli fa intuire la possibilità di una certa matematica; trova, o inventa, con il suo genio, la matematica; e poi dipinge il viso della madonna alterando su basi matematiche il viso della modella.

"La fotografia non può fare questo", dice il Grande Artista Sconosciuto.

Capisco che questo pistolotto, nella mente del Grande Artista Sconosciuto, dovrebbe essere una risposta alle mie domande sulle donne. Ma che risposta esattamente sia, mi sfugge.

 

Dopocena passo a trovare il Grande Artista Sconosciuto. Lo sorprendo mentre sta passando con un panno il suo Cristo con angeli mongoloidi.

"Gli sto togliendo i pelucchi", dice.

Vedo che il cranio ai piedi della croce si sta trasformando in un volto di Madonna dolente.

 

Ci sono due sedie. Una tutta ingombra di schizzi, una libera. Mi siedo su quella libera.

"Vuoi un succo d'arancia?", dice il Grande Artista Sconosciuto.

"Sì", dico.

Mi versa il succo d'arancia in un bicchiere di plastica. Lui beve direttamente dal cartone.

"Oggi volevo parlarti dell'importanza delle lacche", dice poi.

"Dimmi", dico.

"Guarda qui", dice il Grande Artista Sconosciuto. Indica una copia della Cattura di Cristo del Caravaggio alla quale sta lavorando in questi mesi, su commissione di non so chi. Finora ha dipinto solo i fondi: chiazze bianche, nere, rosse, verdi, sopra le quali dipingerà poi i volti, i corpi, le vesti, le armature. "Ti ricordi com'era questo rosso due settimane fa?", dice indicando una chiazza rosso scuro che corrisponde alla voluta in alto del mantello.

"No", gli dico.

"Peccato", dice. "Così non posso spiegarti bene. In sostanza", continua, "questo rosso e quest'altro rosso", e indica due chiazze di rosso molto diverso, "sono lo stesso rosso. Ma questo", e indica la prima chiazza, "l'ho trattato con una lacca".

"Bene", dico io.

"E poi", continua il Grande Artista Sconosciuto, "Guarda questo". Si avvicina al tavolo ingombro di tubetti di colore, piatti di plastica, carte, libri, un vecchio computer Apple, un coltello da sub, cenere di sigaro. Prende in mano un tubetto di colore. "Questo costa trenta euro", dice, mettendomi il tubetto sotto il naso. "Invece quest'altro", e me ne mette sotto il naso un altro, "costa tre euro e venti".

"Però", dico io.

"E guarda questo", aggiunge. Apre un tubetto, mi fa vedere il colore. "Che colore è?", domanda.

"Mi sembra nero", dico.

"Giusto", dice lui. "Però guarda". Prende una goccia di colore sulla punta d'un dito, la sfrega su un piatto di plastica. E' verde, trasparente.

"E guarda quest'altro. Che colore è?".

"Sempre nero", dico io.

Lui non dice niente, lo sfrega sul piatto di plastica. E' il colore della terra appena arata: un marrone scurissimo, anch'esso trasparente.

Il Grande Artista Sconosciuto sorride. "Vedi? C'è chi crede che si possa dipingere con i colori puri, e magari colori da quattro soldi. Ma il segreto della pittura è questo: la velatura. La pittura si realizza in profondità, strato su strato. Così dipingeva Rembrandt. Così dipingeva Caravaggio. Ma nel Novecento questa tecnica è andata perduta completamente".

Si siede sulla sedia ingombra di schizzi, scostandoli appena. Tira fuori un mezzo sigaro dal taschino della camicia, un accendino dalla tasca destra dei pantaloni. Si accende il sigaro, lentamente, meticolosamente.

Poi, cominciamo a parlare di donne.

 

Il telefono portatile fa bip. Ci guardo. E' un messaggio del Grande Artista Sconosciuto:

"Mi piacciono le bambole gonfiabili ne ho vista una sulla cop. di un libro. mi sembra un buon punto di partenza per un quadro!"

 

Due ore dopo incontro il Grande Artista Sconosciuto alla Feltrinelli. E' in compagnia di P*, che conoscevo solo via posta elettronica. Una ragazza dall'aria simpatica. Il Grande Artista Sconosciuto è normalmente seriosissimo e cupo. In compagnia di P* è sorridente, allegro. Si scherza, perfino.

"Che libro è?", gli dico.

"Questo", e mi fa vedere: Porno, di Welsh.

"Ma", dico. "Dopo La sposa e l'altro quadro col feto, ti manca solo la bambola gonfiabile".

La sposa è un quadro fatto così. Una donna nuda, nell'atteggiamento di una che corre (o, mi vien da pensare, che vola: come volano le figure in tanti quadri di Chagall). Un velo da sposa le svolazza dalla testa. Dalla vagina (il pube non ha pelo) esce il cordone ombelicale. Il feto è tra i piedi della donna. L'altro quadro con il feto è fatto così. Una donna nuda, salvo il piede destro infilato in uno stivalone. Nella mano destra tiene un feto, nella sinistra un pietrone. Un raggio di luce taglia la scena. Il viso della donna è appena accennato. Gli occhi e la bocca sono spalancati - come, in effetti, le bambole gonfiabili.

Diversamente dal solito, questi due quadri del Grande Artista Sconosciuto sono molto semplici. Non sono barocchi, caravaggeschi, rembrandtiani. Potrebbero essere, per dire, quadri italiani degli anni Trenta (non sono giudizi di valore, questi; è per dare un'idea). Colore semplice, poco spesso, a volte addirittura puro. Assai bello La sposa, per quanto disturbante, e brutto l'altro, secondo me.

Mi viene in mente che la settimana scorsa ho incontrato F*, un ragazzo che scrive dei racconti imperfetti ma interessanti. Uno di questi racconta d'un gommista di paese al quale viene richiesta, da un signore rimasto vedovo anni prima, una curiosa prestazione: rattoppargli la bambola gonfiabile. Una delle due, anzi: perché ne ha due. Il gommista va, ne trova una seduta a tavola, l'altra messa a letto con biancheria di pizzo; fa quel che deve fare (c'era un forellino sotto il seno); e poi, la sera, c'è la moglie che gli fa domande: sei andato da Tizio, no? E come sta? Poverino, adesso che non c'è più sua moglie. Finché il gommista non ne può più, e dice alla moglie che cos'ha trovato in casa del vedovo. La donna capisce a stento di che si tratta, finché il marito non le dice: ma sì, dài, ne abbiamo vista una, in uno di quei film con il figlio di De Sica. E la moglie si domanda, quasi impaurita: ma quando fa, sì, insomma, le sue cose, con quelle lì, le fa pensando alla poveretta?

"Potresti leggere questo", dico al Grande Artista Sconosciuto. Gli pesco dallo scaffale Cronaca di un servo felice, di Francesco Permunian. Dove c'è un tizio che mentre aspetta che la moglie ricca e vecchia schiatti, si coltiva l'amante; e a moglie schiattata vuole sposare l'amante; solo che l'amante è...

Mi vengono in mente le "teste" di Francis Bacon che il Grande Artista Sconosciuto ha scaricato dall'internet e si è appese nella stanza da giorno. Facce stravolte, deformate. Come le facce delle bambole gonfiabili? Quelle tradizionali, intendo, non certo le realdoll di recente produzione (che sono "realistiche", paradossalmente, in quanto fatte anche con gli stessi materiali sintetici che si usano in chirurgia estetica...).

Tutto questo mi disorienta. Il Grande Artista Sconosciuto sta lavorando da almeno un anno a una Madonna con il ramarro in mano, ora ha questo Cristo in croce con angeli mongoloidi, nella chiesa di san Francesco ha collocato un San Girolamo penitente, è riuscito a fotografare la Madonna (di questo parlo un'altra volta)... Eppure è così: i corpi, per lui, sono comunque corpi. Il corpo della Madonna è bello, perché è della Madonna, ma è comunque un corpo.

 

Il grande artista sconosciuto, dopo aver lette le pagine che lo riguardano in questo diario, mi manda due sms. Il primo dice: Mi spiego: la bamb. gonf. e la gioconda sono i rappresentanti iconografici di 2 modi di rappresentare la donna. La Arcuri può essere ricondotta alla prima.... E il secondo continua: Quindi la b. gonf. è il solo prototipo iconografico della donna dei massmedia cui però manca un pezzo: il feto.

Davanti a un piatto di bigoli in salsa, alla trattoria Sette Teste, discutiamo a lungo.

 

"Dimmi", dice il Grande Artista Sconosciuto, "perché la Arcuri piace a tanti?".

"Noh sho", dico con la bocca piena.

"Perché evidentemente possiede una animalità", dice il Grande Artista Sconosciuto.

"Mhah", dico io. Inghiotto. "A me, più che un effetto di animalità, la Arcuri fa un effetto di industria. Non nel senso che la sua immagine è commercializzata eccetera. Del resto, la Gioconda è commercializzata ancora di più. Ma nel senso che percepisco la Arcuri come un prodotto industriale: una cosa in somma fredda, non calda".

"Certo", dice il Grande Artista Sconosciuto. "E che cosa vuol dire il fatto che la donna più castamente dipinta e quella più animalescamente ritratta, siano entrambe commercializzate?".

Ho una fame terribile. Sto mangiando come una bestia. Non rispondo.

"Vuol dire, appunto", prosegue il Grande Artista Sconosciuto, "che entrambe sono dei prototipi..."...

"Degli archetipi", suggerisco.

"...dei prototipi, che rimandano a degli archetipi, del potenziale femminile", conclude il Grande Artista Sconosciuto.

"Sì", dico, dopo avere ingollato, "ma, visto quello che mi dicevi negli sms, neanche nella Gioconda c'è il feto".

"Dici?", dice il Grande Artista Sconosciuto, sorridendo.

"Eh!", dico, arrotolandomi una forchettata.

"Ma hai guardata la sua carne?", dice il Grande Artista Sconosciuto. "Hai visto come la sua carne è emaciata, quasi cedevole?".

"Sì", dico, la forchetta sospesa davanti alla bocca, "non si può dire che scoppi di ciccia e di salute".

"Ecco!", dice trionfante il Grande Artista Sconosciuto. "Quella carne emaciata, ottenuta da Leonardo per velature e velature, è la traccia del parto. E' la carne di una donna che è partorita".

"Che è partorita?", domando.

"No, sì", si corregge il Grande Artista Sconosciuto. "Che ha partorito. Ma anche che è stata partorita. Invece, la perfetta lucidità e rotondità delle forme della Arcuri, è la negazione completa del feto. Lei non è mica stata partorita. E' industriale, come dici tu".

Tra me e me, masticando, maledico di avergli tirata fuori la Arcuri mentre guardavamo una riproduzione della Gioconda, qualche giorno fa. Devo ricordarmi: ogni cosa che dico, il Grande Artista Sconosciuto la prende sbalorditivamente sul serio.

"Hai capito?", dice il Grande Artista Sconosciuto con il più riposato e riposante dei sorrisi.

"Sì", dico. "Guarda che ti si freddano i bigoli".

E alla fine", dice il Grande Artista Sconosciuto, "mi rendo conto di essere solo un pòro can".

Siamo nel suo studio-soggiorno-cucina. Alla Madonna con ramarro alla quale sta lavorando da mesi è successo qualcosa, ma non saprei dire che cosa. La guancia e l'occhio destri (per chi guarda) sono diventati ancora più luminosi. La guancia e l'occhio sinistri sono ancora più sprofondati nell'oscurità. O forse è solo che oggi c'è poca luce fuori, pioviggina, e il Grande Artista Sconosciuto ha accesa la lampada da tavolo.

"Perché un pòro can?", dico io.

 

"Guàrdami", dice lui. "Guàrdati attorno".

Un bilocale da single, un tasso di ordine e pulizia veramente maschile, avanzi di un po' di tutto sparsi un po' dappertutto, un vecchio Mac chiazzato di caffè birra e chissàchealtro sul tavolo ingombro di carte, schizzi, pennelli, fotocopie di pubblicazioni matematiche. Piatti di carta con colori mescolati. Libri d'arte sfasciati a forza d'essere sfogliati, guardati, studiati. Nel lavello: pentole, bottiglie, boccette di colore, piatti di ceramica, posate.

"Che vita vorresti?", dico.

"Be'", dice il Grande Artista Sconosciuto, sorridendo meravigliosamente, "io vorrei vivere in albergo".

"In albergo?", dico.

"Sì", prosegue lui, serissimo. "In albergo, senza preoccupazioni. E poi naturalmente mi servirebbe uno studio".

"Che dovrebbe essere come?", interrogo.

"Intanto", dice il Grande Artista Sconosciuto, "non troppo distante dall'albergo. Poi, in un bel palazzo. Possibilmente a un piano alto, e con grandi vetrate, per avere luce".

"Bene", dico. "Almeno questo è un obiettivo".

"Un obiettivo?", dice.

"Sì", dico. "Un risultato che puoi perseguire".

Mi guarda, e ancora sorride.

"Non hai capito", dice. "Tutte queste cose, mi dovrebbero essere donate".

"E da chi?", dico, sorridendo anch'io.

"Da un magnate", dice il Grande Artista Sconosciuto. "Da qualcuno che decida di investire nella mia arte. Da un Mecenate. Oppure dal Papa".

"Addirittura il Papa!", mi scappa.

In quel momento mi accorgo: è la mano, della Madonna con ramarro, che è cambiata. E' diventata più mano. Ha preso corpo. Il colore è meno uniforme, più, appunto, carnale. E la stigmata ha un rosso diverso.

"Sì", dice. "Il Papa. Che cosa faccio io, se non arte sacra?".

"E' vero", ammetto, "ma...".

"E allora", dice serissimo il Grande Artista Sconosciuto, "se io non faccio che arte sacra, voglio essere giudicato in quanto artista di arte sacra. Che cosa vuoi che me ne freghi, a me, di tutti questi galleristi, questi critici d'arte, che capiscono solo i quattrini, e poi non sanno neanche distinguere una tempera da un olio?".

"Be'", azzardo, "non è detto che il Papa sia anche un esperto d'arte".

"Certo", dice lui. "Ma il Papa, che non sarà stato eletto Papa per caso, è un esperto di spiritualità. E chi ha una grande esperienza di spiritualità, non ha bisogno di conoscere la tecnica della pittura per riconoscere un bel quadro. La pittura è una cosa per grandi anime", ha concluso.

Ieri sera ho portato T* a guardare il quadro che i Francescani hanno accettato nella loro chiesa. Era tardi, la chiesa stava chiudendo, anche noi dovevamo passare in libreria: abbiamo data solo un'occhiata. "Bello", ha detto T*. "Molto bello".

"E come ci arriviamo?, al Papa", dico.

"Questo non lo so", dice il Grande Artista Sconociuto. "Però so che è lì che devo andare".

"In somma", dico, "tu vorresti stare a pensione in qualche casa o convitto dei preti, tre pasti al giorno e cambio di biancheria, non avere nessun pensiero, e dipingere".

"Sì", dice.

"Un po' come facevano i grandi Papi del Cinque e dei Seicento", dico, "che si prendevano gli artisti alla corte e li facevano lavorare in relativa libertà".

"Sì", dice il Grande Artista Sconosciuto. "E in particolare, mi piacerebbe avere uno studio in Vaticano".

A questo punto, non so che dire. Il mio amico non è pazzo. Dice quello che dice sapendo benissimo che cosa dice. Il mio amico è un pittore. Non conosco molti pittori, ma non ho visto mai nessuno più pittore di lui. E quando mi dice queste cose - anche giocando con la sua stessa grandiosità - mi convinco ogni volta che ha ragione.

E' vero. Quest'uomo dovrebbe dipingere e basta. Possibilmente, per il Papa.

Era da un po' che non passavo dal Grande Artista Sconosciuto.

"Sai", mi dice stamattina. "Per me la matematica è come la pornografia".

"Eh?", dico io.

 

Il Grande Artista Sconosciuto è laureato in matematica. Oggi sul tavolo, tra boccette di trementina e tubi di colore, aveva una dispensa di Grothendieck e un libro di saggi in onore dello stesso Grothendieck.

"Ma sì", mi dice. "Te l'ho già spiegato un'altra volta".

"Ah", dico.

(In verità, mi succede spesso di dimenticare quello che il Grande Artista Sconosciuto dice subito dopo averlo salutato. Mi succede anche con l'Umberto. Ogni tanto penso che dovrei portare con me un registratore, per registrare al volo certe conversazioni. Ma anche al Grande Artista Sconosciuto succede la stessa cosa. La discussione, in somma, ci porta in cieli più alti di quelli che riusciamo a raggiungere da soli. Basta che la discussione cessi, abbia termine, e paf!, ripiombiamo a terra. Per questa ragione il Grande Artista Sconosciuto, di tanto in tanto, mi informa del suo progetto di fondare una tradizione di Matematica da Bar. Tipo dei seminari, ma fatti al bar, nei quali si parla di matemaica così come al bar si parla di calcio. Dice lui).

E' vero che me l'ha già spiegato un'altra volta. Ma non mi ricordo più.

"Io", dice il Grande Artista Sconosciuto, "ho una percezione pornografica della matematica".

"Ah", dico.

"Se uno guarda la pornografia", prosegue il Grande Artista Sconosciuto, "si eccita, se vuole si masturba, magari viene. Se poi però gli domandi com'erano fatti quei corpi che ha visti nelle immagini pornografiche, com'era lei, com'era lui, in che posizioni erano, se il piede era sotto oppure sopra, eccetera, non ti sa dire niente".

"Sì", dico io.

"Ecco", s'infervora il Grande Artista Sconosciuto. "Allo stesso modo è per me con la matematica. Io con la matematica mi eccito. Il mio professore mi ha detto: Tu hai una percezione estetica della matematica. E' vero! E infatti discuto, magari, discuto, e mi sembra di pensare meravigliosamente; ma poi, finita la discussione, non so più che cosa ci siamo detti. Non saprei ridirlo. Invece il mio professore, ad esempio, un giorno gli ho detto che se considera un dimodulo", [seguono cinque minuti di incomprensibilità assoluta per me], "e lui mi ha detto: Ah! Cagate!, e invece un anno dopo ci ha fatto sopra una pubblicazione, quando io quel ragionamento lì l'avevo perso già cinque minuti dopo averlo fatto".

"Quindi?", dico io.

"Quindi così", dice lui. "Ecco. Di queste cose mi piacerebbe parlare con Giovanni Boniolo".

"Ma lui che cosa ne dice?", dico io.

"Ma", dice il Grande Artista Sconosciuto. "Lui dice che quello che io dico non è filosofia, non è scienza, non è filosofia della scienza".

"E quindi che cos'è?", dico io.

"Estetica", dice il Grande Artista Sconosciuto.

"Bene", dico io. "Andiamo a fare colazione".

Caffè, caffè macchiato, pane con l'uva, fetta di salame di cioccolato.

Allora: il fatto è di qualche giorno fa, ma oggi trovo il tempo di raccontarlo. Siamo in quattro: Kìmota, Ale Brèkane, Lieveansia (che vedo per la prima volta) e io, a bere uno spritz al Gancino, verso le otto, in piazza Duomo a Padova. Siamo al tavolo vicino alla porta, quello con gli spifferi. Fuori è già buio. Improvvisamente, nel nero della vetrata che mi sta difronte e dà sulla piazza, appare, in una luce caravaggesca (gli piove dall'alto il faro del sottoportico), la testa pelata del Grande Artista Sconosciuto. Gli faccio segno di entrare. Lui entra.

 

Dico agli altri: "Vi presento il Grande Artista Sconosciuto".

Lui dice: "Ero uscito a fare due passi".

Gli altri dicono: "Ah! Il Grande Artista Sconosciuto!".

Lui dice: "Poi vado a lavorare".

Dopodiché si parla del più e del meno, con una netta prevalenza del più. Il Grande Artista Sconosciuto e Kìmota si infervorano in una discussione su vizi e virtù della fotografia digitale (Kìmota) e tradizionale (il Grande Artista Sconosciuto). Io perdo un po' di fili del discorso, ma non è grave. Poi il Grande Artista Sconosciuto ci saluta e se ne va.

La mattina dopo, alle dieci e qualche minuto, sono con Kìmota nel cucinino-atelier del Grande Artista Sconosciuto. Io ho un mal di testa feroce. Ci sono quadri dappertutto, a vari stadi di lavorazione. Il Cristo con due teste circondato da angeli mongoloidi non ha più il fondo nero, ma un fondo coloratissimo e popolatissimo. In un angolo giace la Cattura di Cristo (da Caravaggio), molto più progredita di come l'avessi vista ultimamente. La Cleopatra con l'aspide è al suo posto, mentre messa da parte, addirittura voltata, è la Madonna matematica alla quale il Grande Artista Sconosciuto ha dedicati mesi e mesi (quest'estate non faceva altro che tornarci sopra). La Medusa che voglio acquistare è splendida nella sua cornice nuova. Appoggiato al lavello c'è un quadro appena abbozzato: una Madonna con il cuore in mano. Quello che si capisce bene è che il cuore sarà un vero cuore, da trattato di anatomia, e non una cosa stilizzata. Vedremo.

Kìmota si aggira per la stanza (ossia: ruota su sé stesso; lo spazio è minimo), mentre io chiedo un caffè. Il Grande Artista Sconosciuto sposta la Madonna con il cuore in mano, si fa largo verso il fornello e il lavello. Kìmota, intanto, comincia a scattare.

"L'altro giorno ho seguito un consiglio del mio professore", dice il Grande Artista Sconosciuto, intendendo il professore con il quale si è laureato in matematica. Intando fruga nell'armadietto alla ricerca del caffè. "Mi ha detto: Prendi quel quadro lì e véndilo, così campi un altro paio di giorni".

Il quadro in questione è una Madonna ispirata ad Antonello da Messina.

"Allora", continua il Grande Artista Sconosciuto, "ho preso il quadro e sono andato da un gallerista dalle parti di Sant'Antonio. Uno che ha tutta roba devozionale, Cristi, Madonne, inginocchiatoi, messali, cose così. Gli faccio vedere la mia Madonna e lui dice: No. E' brutta. E io guardavo tutti gli orrori che aveva lì dentro in bottega".

Kìmota sta decisamente puntando la Cleopatra. Io dico: "Sì, ma ci fai un caffè?".

"Subito", dice il Grande Artista Sconosciuto. Trova un cucchiaio di plastica, si volta verso di me, agita il cucchiaio nell'aria. "La sera poi sono tornato da lui e gli ho detto: ma com'è possibile che con tutte queste schifezze che hai qua non ti prendi la mia Madonna. E lui mi ha detto: Vedi, Grande Artista Sconosciuto: una Madonna come la tua, intendo del valore e del prezzo come la tua, qui in bottega deve starci non più di due ore. Deve andare via subito, hop! Ma invece la tua Madonna è bella, è dipinta come si deve, però vedi: è cupa, è seria, non è commovente, non è rassicurante. Capisci che cosa mi ha detto?".

"Sì", dico. "Capisco. Il caffè?".

"Subito". Prende la macchinetta, la sciacqua, riempie la base di acqua e il filtro di caffè. Accende il fuoco. Kìmota sta cercando di prendere dei particolari del Cristo con due teste.

Il Grande Artista Sconosciuto accende il fuoco sotto la Moka. Poi si volta, fruga nell'armadio, prende un santino della Madonna, me lo mette sotto il naso e dice: "E' bello, questo?".

"Ma", dico io, "sembra un tipo di bellezza un po' campagnola". Il santino riproduce il volto d'una statua in ceramica. Davvero bruttina.

"Ecco", dice il Grande Artista Sconosciuto. "Ma così io ho capita una cosa importantissima".

"Dimmi", dico. Kìmota armeggia con la lampada da tavolo, per portare sul Cristo la luce migliore possibile.

"Ho capito che se queste sono le cose veramente popolari, allora questa è la direzione nella quale io devo andare. Quel gallerista, con tutte le sue considerazioni, mi ha mostrata una finestra strettissima, e attraverso quella finestra io devo passare. Perché, a che cosa serve se dipingo i quadri e me li tengo io? Se il guardi tu, se ogni tanto viene qualche tuo amico o qualche amico di tuo amico a vederli? Se restano dentro una élite? No, no, assolutamente no. Questa finestra strettissima è una sfida. Io voglio passare di là, perché questo hanno fatto i grandi pittori, facendo quadri perfetti e popolari".

Il caffè bolle.

"E' inutile che stiamo qui a smenarcela", dice il Grande Artista Sconosciuto, avviandosi al fornello. "E' troppo facile stare qui a smenarsela", conclude afferrando un bicchiere di plastica.

"Anch'io prenderei un caffè", dice Kìmota.

"Vuoi fotografare dei disegni pornografici?", dice il Grande Artista Sconosciuto.

Passo a trovare il Grande Artista Sconosciuto. Mi apre la porta con un pennello in mano. Entro nella cucina-studio. Appoggiato alla libreria, che funge da cavalletto, c'è la "copia" della Cattura di Cristo di Caravaggio alla quale Claudio sta lavorando ormai da mesi.

Fuori piove.

 

Appendo il giaccone zuppo allo schienale di una sedia, cercando di non bagnare e non far crollare la pila di libri, giornali, carte, schizzi.

Mi siedo sull'altra sedia, libera.

Il Grande Artista Sconosciuto torna al quadro. Dà del nero sulla piega di un manto rosso.

"Vedi questo nero", dice, "come viene fuori? Confrontalo con questo qui", e indica un'altra zona dello stesso manto, "e guarda la differnza".

C'è una bella differenza, infatti.

"Mi fai un caffè?", dico.

"Sì", dice il Grande Artista Sconosciuto.

Mette giù il pennello, comincia a trafficare sul lavello.

Mi suona il telefono portatile. E' A* G*. Rispondo. Cinque minuti di panico: mi rendo conto di avere segnato un appuntamento nel giorno sbagliato. Questa sera dovrei essere contemporaneamente a Padova e a Pordenone. Cerco di rimediare. Mi scuso. Finisco la conversazione.

Il Grande Artista Sconosciuto sta frugando nella sua borsa di pelle.

"Comunque", dice, "bisognerà parlare di questa storia di Kìmota".

"Quale storia?", dico.

"Be'", dice il Grande Artista Sconosciuto, "la mia foto che ha messo nel suo sito è veramente orrenda".

Rido.

"Ma dài, Grande Artista Sconosciuto", dico, "è una foto fatta anche per contribuire, così, a quella specie di clima di mistero un po' sciocco che abbiamo cercato di creare".

"Mah", dice il Grande Artista Sconosciuto.

Mi rendo conto che non riesce a trovare la caffettiera. Il lavello è ricolmo di piatti di plastica. Claudio li usa come tavolozze.

"Senti", dico, "per il caffè non importa".

"Ecco", dice Grande Artista Sconosciuto, "meglio".

Mi suona ancora il telefono portatile. Un numero di Milano, sconosciuto. Rispondo. E' un tizio che mi ha spedito un dattiloscritto due mesi fa. Gli dico di farsi vivo venerdì mattina, che sono in casa e posso parlare con calma.

"Ma che cos'ha che non ti va, quella foto?", dico. "Ti pare un po' troppo Nosferatu?".

"No", dice il Grande Artista Sconosciuto, e mi rendo conto che è serissimo. "E' che mi ha preso dalla parte sbagliata".

"Cioè?", dico.

"Guardami", dice, mettendosi di tre quarti.

"Ti guardo", dico.

"Vedi che da questa parte sono molto più bello?", dice.

Rido ancora.

"Ma dài, Grande Artista Sconosciuto!", esplodo. "Sei peggio della Loren! Vuoi essere fotografato solo dalla parte che vuoi tu! Ma si può?".

"Ma perché tu, scusa?", dice, sempre più serio.

"Boh, non lo so", dico. "Quando mi fanno delle foto, come vengono vengono. Il fotografo sa il suo mestiere. Non mi ci metto in mezzo".

"Ma anch'io sono fotografo!", dice il Grande Artista Sconosciuto.

"Sì", dico, "e hai anche più esperienza di Kìmota, probabilmente. Ma se è lui a fare le foto, e se tu ti lasci fotografare, non puoi che accettare il risultato".

"Non so", dice.

Si volta, guarda il quadro.

Mi suona il telefono portatile. E' un numero di Vicenza che conosco bene. Non rispondo. Il telefono suona a lungo.

"Non puoi pretendere di apparire sempre come vuoi tu", dico al Grande Artista Sconosciuto.

"E perché no?", dice.

"Perché la tua esistenza è proprio nella percezione di te che hanno gli altri", dico. "Tu, come me, come tutti, esisti nelle relazioni. Se pretendi di essere fotografato, pensato, considerato solo come vuoi tu, è come se tu rifiutassi di essere in relazione con chi ti fotografa, pensa e considera".

Mi guarda fisso.

"Ripeti", dice.

Ripeto.

"Ah", dice.

Restiamo in silenzio.

Mi suona il telefono. E' M* dalla casa editrice. Domani sono lì, a Milano. Ci accordiamo in poche parole.

Spengo il telefono. Guardo il Grande Artista Sconosciuto. Il Grande Artista Sconosciuto è fermo al centro della stanza. Ha la fronte aggrottata, la testa un po' piegata.

"La pittura, però", dice, "resta lì".

"Ma", dico. "La pittura è un mezzo di relazione. Come la letteratura, la musica, il giardinaggio e la cucina".

Mi guarda fisso. La fronte è sempre più aggrottata.

"Davvero pensi questo?", dice.

Faccio un lieve ritardo.

"Sì", dico. "Penso questo".

"Ah", dice.

Restiamo ancora in silenzio.

"Ma la pittura è arte", dice il Grande Artista Sconosciuto.